In queste settimane (anzi, in realtà da qualche mese) si è acceso il dibattito tra chi sostiene che sia ormai giunto il momento di tagliare il coso del denaro e chi, invece, è convinto che i tempi non siano ancora quelli giusti. La prima scuola di pensiero ritiene che ritardare il processo possa far correre il rischio di far cadere l’economia in recessione: gli elevati costi finanziari non permetterebbero, da una parte, alle aziende di portare avanti una corretta politica di investimenti, dall’altra costringono le famiglie a limitare i consumi, togliendo linfa all’economia. All’opposto, chi chiede di non farsi prendere dalla fretta è spinto dall’idea che l’inflazione si è solo assopita e che molti sono i motivi che invitano alla prudenza.
Per quanto possano sembrare simili, spesso alcune situazioni sono ben diverse.
Prendiamo, per esempio, gli Stati Uniti e l’Europa (Area UE): quando si parla di inflazione e/o interventi delle Banche Centrali in sostanza facciamo riferimento a queste 2 aree e alle relative autorità monetarie. Non che quanto succeda in Cina o in Giappone non possa avere conseguenze anche dall’altra parte del mondo, ma per il mondo occidentale il “benchmark” è fatto da queste 2 economie.
Se ci fermiamo a guardare il semplice aspetto numerico, entrambe viaggiano ad un livello di inflazione non troppo dissimili: in Europa, a fine 2023, eravamo intorno al 2,9%, mentre negli USA persisteva ancora leggermente sopra il 3%. Ben lontana, quindi, dai massimi dell’autunno 2022, quando viaggiava ben sopra il 10%.
Ma se “scaviamo” alla ricerca delle cause, scopriremo che si tratta di 2 realtà ben diverse.
Negli USA si può dire che la crescita dei prezzi sia dovuto, oggi, sostanzialmente da una domanda di beni e servizi piuttosto sostenuta: quella che si definisce inflazione da domanda. Si verifica quando prevale un clima di fiducia, sostenuto da buoni livelli reddituali, bassa disoccupazione, percezione di benessere: gli Usa, infatti, si trovano ad avere redditi che si sono, di fatto, adeguati all’inflazione, una disoccupazione a livelli minimi, oltre al fatto che, come consuetudine per i cittadini americani, avendo per buona parte investito sul mercato azionario, le ottime plusvalenze realizzate nel 2023 hanno ulteriormente creato una percezione di maggior benessere.
Un po’ diverse, invece, stanno le cose in Europa. Da noi, a far salire i prezzi non è stato il “benessere”, quanto piuttosto l’aumento dei costi produttivi, dovuto alla crescita delle materie prime piuttosto che dagli oneri finanziari, che si sono ribaltati sui prezzi finali. Un’inflazione, quindi, da offerta.
Ecco, quindi, che le scelte di FED e BCE derivano da valutazioni e analisi tra loro diverse.
E’ probabile che la Banca Centrale Usa abbia un po’ meno fretta di tagliare: un’accelerazione, infatti, potrebbe spingere ulteriormente i consumi. Anche perché, al momento, non si vedono particolari problemi nella creazione di nuovi posti di lavoro (pare che i posti vacanti abbiano superato i 9 ML, mai così tanti da qualche anno a questa parte), come conferma anche un livello di crescita piuttosto sostenuto.
Non esattamente quello che sta vivendo l’Europa, dove prevale una certa disomogeneità tra un Paese e l’altro, con una crescita che si può definire asfittica (ultimo trimestre 2023 equivalente a zero) e alcuni Paesi (vd la Germania) in recessione tecnica (che si verifica quando per 2 trimestri consecutivi il PIL è, seppur di poco, negativo). Motivo che dovrebbe spingere, quindi, verso decisioni più rapide, accelerando la strada dei ribassi. Non a caso si fanno sempre più forti le pressioni, da parte della classe imprenditoriale e di una parte della politica, affinchè già a marzo la BCE sia segnali in questa direzione. Anche se, per il momento, persiste l’idea che si andrà avanti in queste condizioni almeno per il primo semestre, contraddicendo i mercati, che, invece, “scontano” una riduzione un po’ prima di quel termine.
Chiusure contraddittorie ieri sera a Wall Street. Se il Nasdaq è leggermente ripiegato (- 0,68%), così non è stato per il Dow Jones, cresciuto di un altro 0,35%. Piatto lo S&P 500 (- 0,06%).
Chiude il mese con un nuovo rialzo Tokyo, dove il Nikkei fa segnare a pochi minuti dal termine delle contrattazioni + 0,61%: se così fosse, il mese di gennaio farebbe segnare un rialzo di ben il 7,7%.
Non esattamente quello che si sta verificando sui mercati cinesi, anche oggi in “profondo rosso”: Shanghai è in calo dell’1,48% (- 5,5% mensile), a Hong Kong l’Hang Seng perde l’1,58% (- 9% il bilancio mensile).
In leggero calo anche il Kospi di Seul (- 0,2%), mentre il Sensex di Mumbai sale dello 0,3%.
Futures intorno alla parità in Europa, mentre oltre oceano prevale il segno meno.
Stabile il petrolio, con il WTI a $ 77,57 (- 0,48%).
Gas naturale Usa sempre intorno allo spartiacque dei 2$ (2,069, – 0,53%).
Oro ancora a $ 2.055 (+ 0,15%).
Spread che torna, seppur di poco, sopra i 150 bp (152,7), per un BTP al 3,78%.
Bund 2,26%.
Treasury ad un passo dal 4% (4,02%).
€/$ 1,0821, sui valori di ieri.
“Riagguanta” la soglia dei $ 43.000 (42.983) il bitcoin.
Ps: Musk si conferma ancora una volta probabilmente l’imprenditore più visionario del pianeta. Domenica scorsa Neuralink, da lui co-fondata nel 2016, ha impiantato per la prima volta in un cervello umano un chip (Telepathy) che permette di controllare con il pensiero alcune attività (l’intervento è avvenuto su un paziente tetraplegico che si è prestato all’esperimento – perché di questo si tratta).Sempre di più l’intelligenza artificiale entra a far parte della nostra vita. Da un punto di vista scientifico nessuno può avere dubbi. Ma un po’ diverso è se si parla di etica: qui, i dubbi, sono tanti. E guai se così non fosse.